venerdì 29 agosto 2008

REDDITO STATALI IL PIU' BASSO IN UE

ROMA - Si aggira intorno ai 23mila euro il reddito medio annuo netto pro capite dei dipendenti pubblici in Italia, una cifra inferiore ai principali Paesi europei: in particolare un lavoratore pubblico medio percepisce oltre 12mila euro l'anno in meno che in Francia, oltre 4mila euro in meno che in Spagna; rispetto a Germania e Regno Unito, la retribuzione è più bassa di oltre 3mila euro. E' quanto emerge da un confronto europeo realizzato dall'Eurispes su dati Istat, Eurostat e Ocse. Di conseguenza, anche la spesa sopportata dal Paese per tali retribuzioni è inferiore non solo a quella della Germania, paese più grande dell'Italia, sottolinea l'indagine, ma anche di Francia e Regno Unito, che hanno all'incirca lo stesso numero di abitanti. Nello specifico, secondo le elaborazioni Eurispes, la spesa totale delle amministrazioni per la retribuzione dei dipendenti pubblici in Italia è stata di circa 155,5 miliardi di euro nel 2005 (in crescita rispetto ai 124,3 miliardi del 2000) contro i 167,5 miliardi della Germania, i 202 miliardi del Regno Unito e i 227,3 miliardi della Francia. Ad ogni cittadino italiano il settore del pubblico impiego è costato in media circa 2.600 euro nel 2005 (più dei 2mila euro della Germania ma meno rispetto ai 3.600 euro della Francia). Tornando alle retribuzioni medie nette dei dipendenti, sempre secondo le elaborazioni Eurispes, i lavoratori meglio pagati sono i francesi, che in un anno guadagnano 35.665,9 euro pur avendo la Francia un forte cuneo fiscale (che supera di poco il 50%); anche in Germania il cuneo fiscale è alto (47,4%), ma il reddito netto medio dei lavoratori tedeschi è di 27.110,8 euro annui. Poco più dei tedeschi guadagnano i lavoratori pubblici spagnoli che in un anno percepiscono 27.622 euro. Nel Regno Unito si ha il cuneo fiscale più basso pari al 30,4% e il reddito netto annuo pro capite ammonta a 26.492 euro. In Italia i lavoratori pubblici percepiscono un reddito medio annuo netto pro capite di 23.476,9 euro (il cuneo fiscale è pari al 45,2%).

1 commento:

  1. GLI AFFARI SONO AFFARI (ANCHE COL NEMICO) – CHE SUCCEDE, DA AMATO A PASSERA, DA BASSANINI A ‘VOLA’-NINNO, LA SINISTRA VA IN SOCCORSO DEL VINCITORE BERLUSCONI? – DOVE SONO FINITI GLI IDEALI?...



    Oscar Giannino per Libero

    Ma come, lei è un imprenditore notoriamente di sinistra, e dà una mano a Banca Intesa che dà una mano a Berlusconi su Alitalia? Il succo è tutti qui, della sferzante intervista riservata ieri dal direttore di Repubblica, Ezio Mauro, a Roberto Colaninno, che della nuova Alitalia privata sarà presidente. Per ventisette volte in ventisette domande, in realtà l’interrogativo è sempre lo stesso. Ha fatto bene Colaninno, a non sottrarsi. Perché a nessun altro meglio che a Repubblica, poteva e doveva essere spiegato il punto di fondo, che a molti partigiani della sinistra sfugge.

    Che cosa volete che faccia come imprenditore, risponde Colaninno: che mi fermi davanti al colore del governo pro tempore come davanti a un semaforo? Restiamo tutti a braccia conserte per far andare il Paese in malora, così siamo più contenti perché la colpa è di Berlusconi e lo cacciamo via prima?

    Una risposta chiara, ripetuta per ventisette volte. Ma che c’entra una questione di fondo. È la fine di quella categoria, sempre che essa sia mai esistita, per la quale come esistevano i maestri “democratici” o i magistrati “democratici” – tradotto: che anteponevano il fine ideologico allo svolgimento al meglio della propria professione – allo stesso modo c’erano gli imprenditori democratici. Il cui fine primo non è quello del profitto, ma del sostegno a uno schieramento politico.

    Che sia Colaninno, a smontare l‘infondatezza di tale presupposto, ha la sua importanza. Io lo conosco e lo stimo e l’ho difeso anche nell’Opa Telecom, che pure gli è valsa l’imperitura critica dei giornali moderati in quanto uomo di sinistra e vicino a D’Alema. Ma ha la sua importanza il fatto che sia proprio uno col suo pedigree, a non nascondersi dietro un dito e a dir chiaro che l’imprenditore deve fare sempre il suo mestiere al meglio, senza mettersi a tifare contro il proprio paese perché a palazzo Chigi c’è Tizio oppure Caio. E a costo, nel dirlo e nel farlo, anche di imbarazzare il figlio, Matteo Colaninno, che è ministro ombra e parlamentare del Pd.

    Ammettiamolo: Silvio ha dovuto fare un po’ di esperienza e commettere anche degli errori gravi, prima di ottenere questo genere di risposte da banche e imprenditori. Il Berlusconi del 1994 e del 1996, per esempio, doveva fare i conti con i grandi nomi del capitalismo italiano convinti della bontà dei governi tecnici sostenuti dalla sinistra e poi di quelli dell’Ulivo, che con Ciampi e Amato e anche Prodi avviavano l’Italia alle privatizzazioni, dalla prima Telecom girata al “nocciolino” degli Agnelli all’Iri avviata a liquidazione grazie ad Andreatta.



    L’articolo 18
    Nel quinquennio di governo 2001-2006, Silvio pagò invece lo scotto di un’accoppiata apparentemente fortissima, tra lui a palazzo Chigi e Antonio D’Amato alla guida di Confindustria, scelto da una base in forte polemica con la tradizionale concezione Fiatcentrica e verso la mano tesa a sinistra, per riceverne di solito anche aiuto diretto. Ma quell’accoppiata ebbe un esito diverso dalle attese. Vinse la resistenza dei sindacati e della sinistra, contro la riforma dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. E gli imprenditori tornarono alla tradizione, con Montezemolo e l’attenzione a sinistra.

    Senonché, il biennio dell’ultimo governo Prodi ha gelato ogni loro aspettativa. I cinque punti promessi dalla sinistra di oneri sociali in meno sulle baste paga, solo per metà dati alle imprese. In cambio, tre punti di pressione fiscale in più e una batteria di aggravi procedurali, amministrativi e contabili per tutti. Grandi gruppi tradizionalmente vicini all’Ulivo e non certo a Silvio, come i Benetton, presi a randellate per decreto legge, bloccando da palazzo Chigi la nascita di un soggetto europeo nella gestione di autostrade come sarebbe stato Auto-Abertis, e riscrivendo autoritativamente la concessione loro in capo in Italia.

    Grandi imprese di costruzione, come quelle impegnate da global contractor nel Terzo Valico sull’asse Genova-Milano, cancellate per decreto da Antonio Di Pietro. Marco Tronchetti Provera, un moderato ma non certo un berlusconiano, estromesso dal controllo di Telecom Italia, stretto nella tenaglia dell’offensiva mediatico-giudiziaria degli spioni aziendali da una parte, e sotto l’attacco diretto dei dossier Rovati da palazzo Chigi per levargli la rete fissa.

    L’era Montezemolo
    Diciamo la verità. La Confindustria ha avuto più sberle che carezze, da Prodi. Con l’ultimo Romano a Palazzo, la sinistra aveva chiuso da un pezzo con le privatizzazioni, e tornava a intervenire a gamba tesissima nella vita di aziende e società quotate e non. A Repubblica sembrano non ricordarsene. Ma l’ultimo anno e mezzo di presidenza Montezemolo in Confindustria era tutto una sparata dietro l’altra, dettata dalle delusioni riservate dalla sinistra al governo. Sembrò a un certo punto che in caso di pareggio elettorale proprio dal mondo dell’impresa e della banca potesse venire una nuova leva di governi dei tecnici, quelli che, da sempre, sono nient’altro che commissariamenti della politica. Ma Silvio ci ha pensato lui coi suoi consensi sonanti, a sbaraccare il campo da quelle ipotesi cervellotiche.

    Alla fine, la Confindustria che da poco ha eletto Emma Marcegaglia guarda non dico con soddisfazione, ma almeno con speranza al fatto che ci sia un governo in carica per cinque anni e non stradiviso al suo interno, che rilanci il nucleare e che la pianti con il no pregiudiziale alle infrastrutture. Alberto Bombassei, per dirne un’altra, è un altro confindustrialone moderato di natura ma deluso a morte dal biennio prodiano. Non è un caso che ci fosse ieri anche la sua, di intervista, a difesa dei 16 soci privati che stanno a fianco di Colaninno nella nuova Alitalia.

    L’imbarazzo principe, per Repubblica e la sinistra, resta il ruolo primario esercitato nella vicenda da quella Banca Intesa in cui Corrado Passera e ancor più Giovanni Bazoli tutto sono, tranne che apostoli del berlusconismo. Nulla sarebbe più sbagliato, che considerarli dei convertiti sulla via di Arcore. Fanno solo il loro mestiere con chi glie lo fa fare meglio. Come Colaninno. Non cambiano idea, tirano la carretta badando al sodo, cioè e fare utili. Mica è colpa loro, se Prodi non ha dato loro retta, e Silvio sì.

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