venerdì 27 febbraio 2015

Rimborsopoli, la Corte dei Conti condanna 22 consiglieri Anche Pittella e De Filippo chiamati a risarcire rimborsi

L’attuale deputato del Pd Vincenzo Folino è stato condannato a risarcire 7.538,08 euro.
Amministratori e consiglieri condannati a restituire le somme appartengono a partiti di tutti gli schieramenti. Secondo i giudici contabili hanno percepito rimborsi impropri per l'attività istituzionale

POTENZA - Non s’è salvato nessuno. A parte due ex per cui gli atti sono stati rimandati al pm. Né il presidente della Regione Marcello Pittella, né il suo predecessore e attuale sottosegretario alla Salute Vito De Filippo. E nemmeno il deputato Vincenzo Folino. Tutti condannati assieme ad altri 18 ex consiglieri in carica tra il 2009 e il 2010 a risarcire le casse del parlamentino lucano, chi più e chi meno, per 206mila euro complessivi. Dai 28mila euro di Gennaro Straziuso ai 1.200 di Giovanni Carelli. 
Lo ha deciso la Corte dei conti di Potenza accogliendo le richieste della procura regionale contabile sul primo filone dell’inchiesta sulle “spese pazze” del consiglio regionale condotta dagli agenti del nucleo di polizia tributaria delle Fiamme gialle di Potenza. Il primo perché al vaglio degli investigatori restano i rimborsi degli anni successivi, e anche per questi gli inquirenti sembrano decisi ad adottare lo stesso metro. 
Il collegio presieduto da Maurizio Tocca (consigliere Giuseppe Tagliamonte ed estensore Vincenzo Pergola) ha rivisto al ribasso le contestazioni per tutti, sulla base delle giustificazioni portate in udienza dai difensori. Ma in sostanza ha confermato l’impianto dell’accusa per cui i beneficiari del rimborso per le spese di segreteria e rappresentanza, oltre 2.500 euro al mese, avrebbero dovuto rendicontare non solo l’esborso, presentando il relativo scontrino (o fattura), ma anche il nesso tra la spesa e l’attività politica svolta. A cominciare dai pranzi, le cene, i caffè, e i pernottamenti in albergo. In caso contrario devono restituire al Consiglio regionale le somme utilizzate. E non spetta alla procura contabile dimostrare a cosa siano serviti realmente quei soldi, ma viceversa. 
«La giurisprudenza della Corte dei conti – spiega la sentenza che è stata pubblicata ieri mattina - ha costantemente affermato che le spese di rappresentanza vanno rigorosamente giustificate e documentate, con analitica indicazione, per ciascuna di esse, delle finalità istituzionali perseguite, del rapporto di pertinenza tra attività dell’ente e spesa, della qualificazione del soggetto destinatario rispetto alla spesa, della sua natura e della sua legittima misura e che devono rispondere a rigorosi criteri di ragionevolezza esplicati attraverso una rigorosa documentazione delle circostanze e dei motivi che le occasionarono». 
«Detto onere non risulta certamente soddisfatto nella maggior parte dei casi all’esame - proseguono i giudici della Corte dei conti - nei quali gli odierni convenuti, producendo i richiesti rendiconti, si sono limitati a depositare solo ricevute fiscali o fatture, da cui è evincibile unicamente che la spesa è avvenuta, ma del tutto inidonee a far emergere la sua finalizzazione “a rendere possibile l’esercizio del mandato”». 
«Più in particolare - aggiungono - , se per le spese univocamente riferibili “all’esercizio del mandato” - come ad esempio, quelle relative alla stampa di pubblicazioni divulgative, ovvero rappresentate in fatture esplicitamente riportanti che la spesa era relativa a nolo sale per convegni (...) - può essere sufficiente la mera allegazione del documento fiscale sufficientemente analitico, altrettanto non può ritenersi per le spese di ristorazione, bar, o alloggio alberghiero (che costituiscono la preponderante parte delle spese contestate dall’attore), o gli acquisti di beni o servizi, in quanto privi di un’oggettiva ed immediata riferibilità alle esigenze “di rappresentanza”. Risponde, infatti, a criteri logico - giuridici di immediata percezione, nonché ai consolidati principi generali innanzi richiamati, che per quest’ultima categoria di spese, non distinguibili da quelle di carattere privato o effettuate per finalità di personale propaganda elettorale, il legittimo e trasparente utilizzo del denaro pubblico non possa prescindere da una adeguata dimostrazione del collegamento tra l’esborso sostenuto e l’ attività svolta per fini istituzionali».
Questo è quanto. Nessun giudizio morale, quindi. Ma soltanto un rilievo di carattere amministrativo-finanziario. 
«La colpevolezza degli odierni convenuti - aggiunge ancora la Corte - risiede essenzialmente nell’avere inescusabilmente disatteso il “dovere di “dar conto” delle modalità di impiego del denaro pubblico in conformità alle regole di gestione dei fondi ed alla loro attinenza alle funzioni istituzionali”».
E non possono valere come causa di giustificazione i richiami delle difese «a un affidamento indotto da prassi decennali di rendicontazione senza alcun rilievo da parte del controllo interno sulle spese in trattazione, affidato all’Ufficio di presidenza del Consiglio regionale». 
Controlli che in realtà dal 2006 erano stati praticamente aboliti. 
Se non per addebitare, in parte, la responsabilità «in ragione degli omessi dovuti controlli» ai membri dell’Ufficio di presidenza. 
Per questo i giudici hanno deciso di ridurre del 20% le contestazioni a tutti, rinviando gli atti alla procura regionale perché lo addebiti ai membri dell’Ufficio di presidenza in carica all’epoca dei fatti. 
Discorso a parte per due ex consiglieri, Emilia Simonetti e Vincenzo Viti, assistiti dall’avvocato Vincenzo Montagna. Per loro la Corte ha deciso di restituire gli atti al pm perché precisi le contestazioni residue dopo le giustificazioni accolte e le decurtazioni effettuate.

l.amato@luedi.it