Basilicata: regione
senza futuro, senza lavoro, senza salute, senza soldi, ma con tanto petrolio.
Il settantuno per cento della produzione di petrolio italiana arriva dai
giacimenti della Basilicata, i più grandi non solo del Paese, ma di tutta
l’Europa occidentale. L’Eni specula sul territorio lucano da oltre vent’anni.
Un rapporto unidirezionale tra gli imprenditori del petrolio e la Basilicata.
Eni trivella e guadagna mentre la Basilicata si impoverisce, sempre di più, a
discapito dell’economia locale e della salute dei lucani. Dal 1998 ad oggi sono
giunti alla regione ben cinquecentoottantacinque milioni di euro che non hanno
prodotto nessun significativo miglioramento delle condizioni socio-economiche
delle zone interessate, anzi, per certi versi, non hanno fatto altro che
peggiorarli.
In Basilicata ci sono tre giacimenti attivi: Gorgoglione (gestione Total
per il settantacinque per cento e Shell Italia per il venticinque per cento),
Serra Pizzuta (Eni) e soprattutto quello della Val d’Agri, da cui proviene
oltre il novantanove per cento del petrolio estratto sul territorio regionale
(Eni per il sessantuno per cento e il restante trentanove di proprietà di Shell
Italia).
Tutte le risorse del sottosuolo sono di proprietà dello Stato. Il petrolio
appartiene dunque alla collettività nazionale. Fino a una ventina di anni fa
l’Italia prelevava gli idrocarburi, presenti nel sottosuolo dei suoi territori,
per mezzo di un ente pubblico: l’Eni. Quando ciò accadeva questa società
compensava i territori con delle contropartite finanziarie (royalty) decisamente
basse rispetto al ritorno economico che i quantitativi di gas e petrolio
estratti erano in grado di produrre. In genere le popolazioni che vivevano in
quei territori non si lamentavano, perché, pur in presenza di royalty modeste,
l’enorme ricavo che l’Eni ne traeva veniva espresso in utili di bilancio che
erano ad appannaggio dell’unico azionista, lo Stato italiano.
Nel 1992 accadde che l’Eni da ente pubblico venne trasformato in società per azioni interamente posseduta dallo Stato italiano. Poco dopo lo Stato mise sul mercato parte del capitale azionario conservandone una quota superiore al trenta per cento (divisa tra ministero del Tesoro e la Cassa Depositi e Prestiti), detenendone, comunque, il controllo effettivo della società. A essere proprietari dell’Eni, dunque, non c’è più solo lo Stato italiano ma anche altri azionisti istituzionali quali la Gran Bretagna, l’Irlanda, altri Stati dell’Unione Europea, gli Usa, il Canada.
A estrarre il petrolio lucano vi sono poi anche altre società come la Total
che corrispondono anch’esse una royalty del dieci per cento andando a
“ingrassare” così i propri azionisti. Oggi la Basilicata riceve centocinquanta
milioni di euro l’anno, che corrispondo al sette per cento di tutte le
estrazioni, che corrispondono a royalty ridicole.
Attualmente una parte di questi soldi sono stati utilizzati per il bonus
idrocarburi, un’altra, invece, non è stata ancora utilizzata. Per ora la
Regione Basilicata ha bloccato i fondi, e non è ancora chiaro se verranno
reinvestiti sul territorio in termini economici o dirottati per la costruzione
di infrastrutture collaterali.
Nella seconda metà degli anni Novanta vennero avviate le attività di
estrazione, che furono viste con sostanziale favore dalla popolazione locale,
con l’idea che l’industria petrolifera avrebbe portato lavoro e prosperità con
una ingente domanda di forza lavoro (mentre l’industria estrattiva è
notoriamente un’attività a bassa intensità di manodopera, soprattutto se non
qualificata).
È sotto gli occhi di tutti, invece, come la scelta petrolifera non solo
stia mostrando tutta la sua inefficacia rispetto alla soluzione dei problemi
economici e sociali delle aree interessate, ma risulta anche essere un enorme
freno per altre prospettive di sviluppo, tutte praticabili, che a partire dalla
difesa dell’ambiente e della biodiversità puntano ad una programmazione dello
sviluppo in armonia con le peculiarità locali. Parliamo di circa mille
chilometri quadrati di aree, date in concessione per l’estrazione del petrolio.
Numero destinato ad aumentare, infatti, ci sono altri mille chilometri quadrati
dedicati ad attività di ricerca e le richieste di nuovi permessi, in corso di
valutazione al ministero dello Sviluppo economico, riguardanti quasi tremila
chilometri quadrati.
Aree sempre più vaste del territorio lucano sono a rischio per la richiesta
da parte delle compagnie petrolifere di realizzare attività di estrazione di
idrocarburi, suscitando allarme nelle popolazioni ed, anche, nelle
amministratori locali che, diversamente da ciò che è avvenuto in passato, oggi
considerano la tutela dell’ambiente e del territorio come elemento
assolutamente imprescindibile. Sono in discussione il futuro di intere aree
territoriali della Basilicata e lo stesso concetto di sviluppo che prima era
incentrato sullo sfruttamento delle risorse petrolifere del territorio.
L’oggetto di discussione è ora la realizzazione del pozzo “Pergola 1″ (per ora,
solo pozzo di esplorazione) e delle condotte di collegamento all’area “Innesto
3″, in contrada Santa Maria, nel Comune di Marsico Nuovo (in provincia di
Potenza).
Questo pozzo nascerebbe in una zona ricca di sorgenti di acqua (bacino
idrico del Sele) e a poche centinaia di metri dalla contrada San Vito, dove c’è
un insediamento abitato. Il relativo oleodotto di collegamento dovrà passare in
zone di notevole interesse, sia dal punto di vista delle risorse idriche, che
dal punto di vista naturalistico, nonché zone ad alto rischio idrogeologico.
Senza tralasciare che è, ormai noto e scientificamente provato, che le
estrazioni petrolifere sono attività industriali tra le più pericolose riguardo
a possibili danni al suolo, al sottosuolo, alle sorgenti e alla salute umana.
Ma gli interessi dell’Eni sono enormi. Infatti, significherebbe produrre quarantamila
barili al giorno. E poi, Pergola 1 si trova al confine sulla Val d’Agri e
questo permetterebbe di aprire un varco verso i monti della Maddalena, quindi
verso il vallo di Diano (in Campania), dove già sono in corso richieste
specifiche da parte dei petrolieri.
Di qui parte il duro braccio di ferro tra forze politiche, cittadini ed
Eni. Lo scorso 17 marzo, il presidente della giunta regionale Pittella, i due
assessori regionali Berlinguer e Liberali, il sindaco Vita e il responsabile
dell’Eni Gheller, sono stati contestati dai cittadini proprio per la questione
del pozzo Pergola 1. Chiamati per un dibattito pubblico a Marsico Nuovo, hanno
deciso di abbandonare l’aula dell’incontro, perché accolti da fischi e insulti.
Pare, quindi, che la popolazione lucana abbia iniziato a ribellarsi ad anni
di giochi di potere e diritti acquisiti da parte delle compagnie petrolifere.
Si è costituito un comitato, con possibilità di firmare una petizione, che
vuole impedire la realizzazione del pozzo, ma tante altre sono state le
manifestazioni sul territorio, come per esempio la catena umana per impedire
l’inizio delle trivellazioni.
Oltre quindici anni di attività petrolifera in Val d’Agri hanno avuto come
conseguenza numerosi e gravi danni, tra cui incidenti legati all’attività del
centro oli di Viggiano o lungo gli oleodotti (fuoriuscita di greggio
dall’oleodotto a Bernalda (in provincia di Matera), emissioni maleodoranti,
dovute soprattutto ai composti solforati, inquinamento acustico molto
frequente).
Smetteranno di trivellare? Sulla bilancia, ancora una volta, gli interessi
politici e dello Stato e la salute dei cittadini. La Basilicata è ormai
martoriata dai pozzi, inquinata nel profondo. La proposta delle associazioni
ambientaliste, impegnate per salvare il popolo lucano, è quella di prevenire i
disastri ambientali, smascherare chi, per anni, ha giocato con la salute
promettendo posi di lavoro e sviluppo.