Qualche anno fa i media avevano paragonato la Val d’Agri al Texas perché in questo splendido territorio per lo più protetto (Parco Nazionale dell’Appennino Lucano Val d’Agri Lagonegrese) alcune compagnie con in prima fila l’Eni, hanno scoperto e coltivato giacimenti di petrolio che coprono il 6% del fabbisogno nazionale, provocando inquinamento dell’acqua, della terra e dell’aria
Inquinamento che ha compromesso l’integrità dell’ambiente mettendo in difficoltà attività come l’agricoltura e il turismo. Apre così l’ultimo rapporto del WWF sulle estrazioni petrolifere in Italia. Poco più di 20 pagine intense di dati e di spiegazioni. La domanda principale a cui risponde il Rapporto è: perché estrarre petrolio anche quando non è conveniente conviene? E a chi? Andiamo a vedere.
I costi del conflitto, il mare e la terra
Il conflitto tra petrolio e ambiente è ineliminabile, dato il rischio permanente e persistente per gli ecosistemi marini e terrestri che l’estrazione dell’orno nero comporta. Tanto che, a proposito di conflitti, molte vertenze sono aperte dalla Sicilia alla Puglia, che coinvolgono non più soli cittadini “impauriti dagli allarmisti”, ma anche gli operatori turistici e i pescatori professionali. E sembra abbiamo ragione. Intanto “è bene ricordare – scrive WWF- che in Italia c’è poco petrolio e quello che si estrae è di scarsa qualità…” A proposito del latente, possibile conflitto tra settori economici che contribuiscono alla ricchezza del Paese “c’è da ricordare, ad esempio, che il settore turistico in Italia nel 2011 ha contribuito all’8% del Pil ed è al primo posto in Europa e al 27essimo posto nel mercato turistico internazionale complessivo”. Si pensi anche all’agroalimentare, alla pesca che sono settori strategici nell’economia del Paese, intimamente legati, spesso, al turismo. Dunque l’estrazione petrolifera comporta forti conflitti, ma anche, come vedremo moltissimi rischi per la salute. Quasi mai in Italia il prezzo vale la candela. Nella bilancia tra costi (economici, sociali, sanitari) e ricavi ci rimettono tutti, tranne qualcuno.
Quali motivi spingono le compagnie petrolifere a venire in Italia ed in particolare in Basilicata?
Eppure i margini di profitto non sono sicuri e si rischiano conflitti, come abbiamo visto, con altri soggetti economici, gli abitanti e le autorità locali. Il rapporto del WWF parla chiaro: “La cosa si spiega solo se consideriamo che l’Italia è una sorta di Far West, in cui vige un regime fiscale smaccatamente favorevole alle aziende che operano nell’estrazione di idrocarburi liquidi e gassosi”. Come rileva l’associazione ambientalista, su 136 concessioni per la “coltivazione” in terra di idrocarburi liquidi e gassosi attive in Italia nel 2010, solo in 21 casi sono state pagate le royalties (imposte sullo sfruttamento del territorio) alle amministrazioni pubbliche e, su 70 coltivazioni in mare, solo in 28 casi sono state pagate. Nel 2010, in definitiva, delle imprese petrolifere che operano in Italia solo 5 hanno pagato le royalties (ENI, Shell, Edison, Gas Plus Italiana ed ENI/Mediterranea idrocarburi). “Grazie a questo amplissimo sistema di esenzioni, di aliquote sul prodotto e di canoni di concessione bassissimi ed una serie di agevolazioni e incentivi, la nostra Penisola e le sue acque sono oggetto di una ricerca sovradimensionata di oro nero o di gas”, denuncia il WWF. Solo nel 2011 sono state 82 le richieste e i permessi per la ricerca di gas e petrolio in mare (74 dei quali nelle regioni del Centro-Sud e 39 nella sola Sicilia) registrati dal Ministero dello Sviluppo Economico. Le istanze di ricerca e i permessi di ricerca in terra presentati nello stesso anno sono stati invece 204 (89 al Nord, 61 al Sud, e 54 nel Centro Italia).
Il fisco amico dei petrolieri
Per far capire quanto le agevolazioni fiscali siano “attrattive” per le società petrolifere, il Wwf fa qualche esempio: le prime 20 mila tonnellate di petrolio prodotte annualmente in terraferma e le prima 50 mila tonnellate di petrolio prodotte in mare, così come quantità corrispondenti di gas estratte da terra e dal sottosuolo marino nel Bel Paese, sono esenti dalle tasse. L’aliquota sull’estrazione di quantità eccedenti le soglie esentasse oscilla tra il 7% e il 4%, a seconda che si tratti di idrocarburi gassosi o liquidi estratti in mare, mentre in terraferma sale al 10% sia per il gas che per il petrolio. Se pensiamo che la media delle aliquote applicate da altri Stati oscilla tra il 20 e l’80% del valore del prodotto estratto, è chiaro che l’Italia rappresenta il Paese del Bengodi per i magnati dell’oro nero. Dal 2011 la produzione annuale di gas esentata dal pagamento dell’aliquota per ciascuna concessione di coltivazione è stabilita in 25 milioni di metri cubi standard di gas per le produzioni in terraferma e in 80 milioni di metri cubi per quelle in mare. Sono esenti, inoltre le prime 20mila tonnellate di olio prodotti in terraferma e le prime 50mila tonnellate di olio prodotte in mare (equivalente di 325 mila barili di petrolio). Nessuna aliquota è dovuta per le produzioni effettuate in regime di permesso di ricerca.
Il fisco amico dei petrolieri
Basili(bu)cata
In Basilicata, che contribuisce per il
6% al fabbisogno nazionale di petrolio, il 60% del territorio è interessato da
attività di ricerca e di coltivazione degli idrocarburi. Il parco nazionale
dell’Appennino lucano, Val D’Agri e Lagongerse è assediato dalle attività di
perforazione con gravi conseguenze di inquinamento delle acque e del suolo e
rischi per la salute della popolazione. Oggi il giacimento dell’Eni della Val
d’Agri, il più grande d’Europa su terraferma, porta all’Italia oltre l’80%
della produzione nazionale di greggio. Oggi vengono estratti circa 80mila
barili al giorno, ai quali se ne potranno aggiungere fino a 100mila. Il
potenziamento del giacimento dell’Eni in Val d’Agri porterà a una produzione
fino a 125 mila barili al giorno e con l’avvio dal 2015 della Total a Tempa
Rossa, ne arriveranno altri 50mila. Cioè 175mila in totale.
Lucani prigionieri
I lucani hanno sotto i piedi il
giacimento petrolifero terrestre più grande d'Europa: riserve accertate per
circa 450 milioni di barili, un valore stimato in quasi 50 miliardi di dollari
nascosti nel sottosuolo della Val d'Agri. Ma da qualche altra parte, oltre la
Valle, assicurano i cercatori di oro nero, ce n’è ancora. Ormai si grida da
anni, da più parti, che il prezzo non vale la candela. Non tutti sono
d’accordo. Alcuni sono convinti che il prezzo, che necessariamente bisogna
pagare, può valere la candela. Però, come abbiamo già scritto su queste
colonne, c’è un problema, anzi due. Uno riguarda la capacità di spesa delle
royalties, l’altro riguarda i danni ambientali, economici e i costi sociali, in
breve la compensazione. Dal 2000 al 25 gennaio 2012 la Basilicata ha maturato
quasi 677 milioni di euro di royalties sul petrolio, una media di 56 milioni
all'anno. Un bel tesoretto ancora non tutto impiegato. Sono le compagnie
petrolifere a pagare alla Regione e ai Comuni le royalties (7% degli incassi
derivanti dalla vendita dell'oro nero). L'Eni, che estrae greggio dalla val
D'Agri dal 1998, ha il 45% delle concessioni di Volturnino (il restante 55% è
della Shell) e il 71% di Grumento Nova (29% è Shell). Total, Shell e Exon Mobil
operano invece nei pozzi di Tempa Rossa, a Corleto Perticara, dove si stima ci
siano altri 420 milioni di barili. Tra occupati diretti e contrattisti la cifra
è davvero scarsa, circa 430 persone tra l’area estrattiva della Val d’Agri e
quella di Pisticci. Sforzi enormi, scarsi risultati. Le risorse sono quasi
tutte impegnate (70% circa) nel programma operativo Val d’Agri, ma nulla sembra
muoversi in termini di sviluppo, di occupazione, di crescita delle imprese. C'è
paura di investire in un contesto povero a tasso zero di sviluppo. La Regione
finanzia dei progetti ma poi sono gli stessi imprenditori a non avere i soldi
per realizzare gli investimenti o per il cofinanziamento. Soprattutto le
imprese agricole chiudono o sopravvivono, spesso anche in questo settore le
risorse restano inutilizzate. In Val d’Agri accade il contrario di quanto si
sperava: il numero delle imprese registrate anziché aumentare diminuisce.
Sembra una maledizione. La Basilicata riesce a compensare poco, ma molto poco i
danni derivati dalle estrazioni petrolifere.
Un azzardo pericoloso per la salute
Niente in cambio, non solo per il cinico
calcolo delle compagnie petrolifere, ma per la scarsa capacità della regione di
utilizzare al meglio le royalties. Se si trattasse di un gioco a somma zero,
sarebbe meno paradossale e pesante la condizione lucana, ma il gioco è duro e i
rischi sono molto alti. Il petrolio rappresenta una risorsa non rinnovabile
che, al pari degli altri combustibili fossili, è costituita principalmente da
una miscela complessa di sostanze dette idrocarburi (contenenti sia idrogeno
sia carbonio) Molte di queste sostanze sono dotate di elevata tossicità
per tutti gli organismi viventi, quindi anche per la specie umana. Al petrolio
greggio o più generalmente agli idrocarburi che lo compongono sono
riconducibili alcune delle principali forme di contaminazione ambientale, che
possono interessare l’aria, il suolo, l’acqua. Studi recenti indicano
l’idrogeno solforoso molto pericoloso per la salute umana. La letteratura
scientifica è unanime nel riconoscere la tossicità dell’H2S (idrogeno
solforoso). Una esposizione ad alte dosi può anche provocare la morte
istantanea. Ecco perché gli impianti di idro-desulfurizzazione
(cope il Centro Oli di Viggiano) fanno paura. L’eventualità di fuga di
quantità considerevoli di H2S dagli impianti presenterebbe rischi notevoli per
la popolazione locale. Esiste infatti ampia documentazione di accidentale
emissione di H2S da impianti di lavorazione del petrolio, anche in tempi
recenti. L’evidenza scientifica vagliata porta alla conclusione che anche
livelli di H2S al di sotto delle norme stabilite per legge hanno gravissime
potenzialità nocive per la popolazione. L’ H2S, classificato ad alte
concentrazioni come veleno, a basse dosi può causare disturbi neurologici,
respiratori, motori, cardiaci e potrebbe essere collegato ad una maggiore
ricorrenza di aborti spontanei nelle donne. A volte questi danni sono
irreversibili. Da risultati recentissimi emerge anche la sua potenzialità, alle
basse dosi, di stimolare la comparsa di cancro al colon. Tutte le operazioni di
trattamento dei prodotti petroliferi, a qualsiasi livello, hanno la possibilità
a di emettere quantità più o meno abbondanti di idrogeno solforato, sia sotto
forma di disastri accidentali, sia sotto forma di un continuo rilascio
all’ambiente durante le fasi di estrazione, stoccaggio, lavorazione e trasporto
del petrolio. I rischi delle estrazioni petrolifere sono stati illustrati di
recente in un convegno organizzato a Potenza dalla Ehpa in collaborazione con
il Comitato Aria Pulita.
Alcuni fatti già accaduti
L’H2S può essere immesso nell’aria anche
a causa di irregolarità nel funzionamento dei pozzi, che spesso possono
accidentalmente rilasciare petrolio in maniera incontrollata e violenta. Quelli
che in inglese vengono chiamati “well blowouts” (scoppiamento dei pozzi) sono
processi molto comuni nell’industria petrolifera, dovuti al mancato funzionamento
delle valvole di sicurezza. Gli scoppi possono anche essere così sostenuti da
non poter essere direttamente estinti. Episodi di “scoppiamento” si sono avuti
nel centro Agip a Trecate (Novara) nel 1994, dove viene estratto petrolio
dolce. Si stima che un area di circa cento chilometri quadrati fu inquinata da
questo scoppio. Molti dei terreni interessati erano a coltivazione agricola e a
tutt’oggi non sono più praticabili. Altri episodi di scoppiamento dei pozzi
petroliferi in Italia, si sono registrati in Basilicata, presso il pozzo
Policoro 1 nel 1991 e Monte Foi 1, in seguito al quale quest’ultimo fu chiuso.
Altri episodi più recenti di accidentale immissione di H2S in Lucania
riguardano preoccupanti perdite nel 2002 e nel 2005. La Ola (Organizzazione
Lucana Ambientalista) denunciava nel dicembre 2010 una presunta fuga di
idrogeno solforato al Centro Oli di Viggiano.La Ola riferiva che alcuni
cittadini avrebbero detto di aver patito “lacrimazione associata a fastidio
nella respirazione.” E spiegavano che “l'odore di uova marce non è l'odore
dello zolfo, che è inodore, ma solo del suo composto, H2S, Idrogeno Solforato
che è tossico e cancerogeno, anche a dosi continuative, se pur limitate.” Il 5
aprile del 2011 i 21 operai della Elbe Sud Italia, un’azienda situata a
poche centinaia di metri dal Centro Oli di Viggiano avvertono sintomi di
malore. Tutti ricoverati in ospedale. Ma non è ancora chiaro se la causa è da
attribuire a fughe di H2S.
Il peggio del dopo
Il petrolio, attraverso i suoi vari
cicli e sistemi di raffinazione e trasformazione, dà luogo a una moltitudine di
sostanze diverse, dai gas e combustibili veri e propri, che sono lo scopo primo
della raffinazione, a sostanze residue come i composti di metalli o zolfo con
materiali bituminosi. In tutte queste trasformazioni - ma anche e per certi
versi soprattutto nell'utilizzo del petrolio e dei suoi derivati - si generano
rifiuti che devono essere smaltiti. Occorre tenere presente che il petrolio - e
gli idrocarburi in genere - sono fortemente inquinanti e nocivi per l'uomo e la
vita in generale. Parlare dello smaltimento dei rifiuti del petrolio è, quindi,
importante ma particolarmente complesso, proprio per la varietà di rifiuti. La
stessa classificazione di rifiuto è difficile nel caso del petrolio. In molti
paesi, infatti, dopo che al greggio sono state tolte tutte le sostanze più
'nobili', i residui ultimi della sua lavorazione sono considerati rifiuti
tossici nocivi.Altri problemi nella gestione del petrolio sono collegati al suo
trasporto e a quello dei suoi rifiuti. Purtroppo, negli ultimi anni si sono
verificati molti incidenti navali, con conseguente perdita di ingenti quantità
di petrolio grezzo in mare e, quindi, con gravi conseguenze per l'ambiente. Un
caso che ha segnato una svolta per quanto riguarda questo tipo di inquinamento
è quello dell'incidente alla nave Exxon Valdez, avvenuto nel 1989 al largo
delle coste dell'Alaska: oltre 257.000 barili di petrolio grezzo uscirono dalla
nave in seguito all'apertura di una falla nello scafo. Per rendersi conto della
quantità di petrolio che arrivò sulle coste, basti pensare che il volume di
petrolio fuoriuscito è equivalente a quello di 127 piscine olimpioniche. Mare,
spiagge e animali furono tutti ricoperti dal petrolio e l'opera di bonifica è
tuttora in corso!Ovviamente, la cautela nel trasporto e nello stoccaggio vale,
a maggior ragione, per il trasporto dei rifiuti della lavorazione del petrolio.
Molti episodi di inquinamento sono nati proprio dalla necessità di trasportate
rifiuti di petrolio e non direttamente dal trasporto stesso, se non addirittura
dalle operazioni di pulitura dei mezzi di trasporto utilizzati. Infine, come
abbiamo già visto, occorre considerare che il bruciamento del petrolio e dei
suoi derivati produce inquinamento. Questo è vero in tutta la filiera, dai
pozzi di estrazione alla raffinazione e, soprattutto, all'utilizzo dei derivati
del petrolio. Oltre ai molti veleni immessi nell'aria in questi processi,
sappiamo oggi con una ragionevole certezza che l'aumento di CO2 presente
nell'atmosfera è dovuto al bruciamento di petrolio e dei suoi derivati.
Amaro riepilogo
Dunque, abbiamo il petrolio, ma non è il
nostro. Per causa della legislazione nazionale siamo costretti ad accettare
royalties bassissime. Non riusciamo a spuntarla su accordi più favorevoli.
Intanto le compagnie petrolifere si permettono di coltivare idrocarburi anche
dove, in condizioni normali, non sarebbe affatto conveniente. In Italia e in
Basilicata si, per loro è molto conveniente, grazie alle norme di favore. Loro
incassano miliardi di euro, al territorio lasciano gli spiccioli. Quegli
spiccioli però non riusciamo a spenderli, e quando li spendiamo non creano
sviluppo. Tant’è che la Basilicata è sempre più povera, le imprese affannano e
chiudono, l’agricoltura si ammala e regredisce, il turismo non decolla, i
giovani fuggono, la disoccupazione dilaga. Intanto il suolo, l’aria e le acque
sono sottoposti a pericolosi fenomeni di inquinamento. Trovare un equilibrio
tra petrolio e territorio è un’impresa impossibile. Meno impossibile sarebbe se
cambiassero le leggi dello Stato e se gli amministratori locali e regionali
avessero le idee più chiare e una migliore capacità di programmare azioni di
sviluppo. Il risultato, a oggi, è stato "l'inquinamento di acqua, terra e
aria", scrive il Wwf, mentre in un comunicato dell'Ola (l'Organizzazione
lucana ambientalista) titolato "Petrolio, tra miti e falsità", si
spiega che "negli ultimi vent'anni un cittadino lucano su due s'è ammalato
di patologie cardiorespiratorie nell'area del centro oli di Viggiano (proprietà
Eni)" e che "i malati di tumore sono ormai il doppio della media
nazionale". Poveri, malati e disoccupati.
Il paradosso
Il petrolio non è compatibile con
l’ambiente. O prendi l’uno o prendi l’altro. Devi scegliere. Ma spesso sei
costretto a scegliere il petrolio. In questo caso lo compri da chi ne produce
quantità significative a livello mondiale. Da chi ha fondato la propria
economia quasi interamente o in quota significativa, sulla produzione del
greggio o del gas. Paradossalmente risparmi. Perché coltivarselo in casa per
ricavarne quantità irrisorie è molto costoso. Soprattutto un Paese come
l’Italia che ha fondato e potenzialmente dovrebbe fondare, quote significative
del proprio Pil su altri settori: turismo, agro alimentare, pesca, moda,
tecnologie ecc. L’Italia ha un fabbisogno di 93 milioni di tonnellate di
idrocarburi liquidi. Ne produce in casa meno del 6%. Quella quantità minima che
produce quanto costa? Molto. Perché i territori interessati dalla coltivazione
di petrolio subiscono danni enormi e a lungo resistenti. Molto. Perché i
giacimenti attivi disturbano notevolmente gli altri settori dell’economia,
indebolendoli, rendendoli meno attraenti. Viene depotenziato il valore
economico del paesaggio, della qualità degli alimenti, della qualità dell’aria,
della godibilità ambientale. Molto. Perché i conflitti sono sempre vivi e per
natura costosi. Vale la pena per quel misero 6%? . Se il ragionamento vale per
il Paese a maggior ragione riguarda la Basilicata dove si produce l’80% del
greggio nazionale che a conti fatti su scala globale è uno zero virgola.
Mortificare l’agricoltura e il suo sviluppo, indebolire le potenzialità
turistiche di interi territori, assistere al degrado ambientale di vaste aree,
mettere continuamente a rischio la salute dei cittadini: vale davvero la pena?
Eppure il petrolio non è il futuro, è una fonte destinata ad esaurirsi nei
prossimi 30-40 anni. Il Basilicata la previsione è di 10 anni ancora. Stiamo
distruggendo il vero futuro per causa di un bluff. E se non sbagliamo, il
futuro sono i nostri bambini.
di Redazione Basilicata24
Nessun commento:
Posta un commento